Ragazzi dell’Europa

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A volte le immagini sono più efficaci e significative delle parole; questo vale, soprattutto, quando le parole sono portatrici di ipocrisia, di vuoto e di incomprensioni (più o meno volute). 

I ragazzi ritratti nelle fotografie che pubblichiamo sono alcuni dei nostri operatori che quotidianamente lavorano presso la CRA Vici-Giovannini di Cattolica e alcuni giovani studenti universitari polacchi che stanno svolgendo in Italia il progetto di studio Erasmus Plus. 

In questi giorni, in questi mesi, in questi anni terribili, nei quali le guerre e le violenze di ogni tipo sono diventate talmente quotidiane da rasentare la normalità (quella “banalità” che ci fa assuefare al male assoluto, come ci ricorda Anna Harendt), immagini come queste fanno ancora sperare in spiragli di un futuro possibile e forse migliore. 

Già, perché il futuro si costruisce realizzando ponti e non erigendo steccati, abbattendo le barriere e non inventando nuovi confini, siano essi materiali o ideologici. 

Gli studenti universitari polacchi che cooperano con la nostra realtà ci stanno insegnando – e noi speriamo di potere ricambiare parte di questi insegnamenti – che l’uomo costituisce e rappresenta sempre un valore in sé, un valore inalienabile, un valore assoluto qualunque sia la sua lingua, il colore della sua pelle, il suo credo religioso, le sue abitudini sociali. 

A volte ci perdiamo in discussioni che hanno l’obiettivo di dare un nome alle cose, quando invece ci dovremmo occupare della sostanza di quelle stesse cose. 

I ragazzi ritratti nelle fotografie ci raccontano che nessuno di noi è un’isola e che il nostro “ego” – se non si misura con l’altro – non vale assolutamente nulla. È solo nella collaborazione e nel “fare insieme” le cose che si può sperare di cambiare ciò che non funziona o ciò che può essere migliorato. 

Nessun alibi potrà mai giustificarci se decideremo di dare ascolto unicamente al nostro “io”, senza prendere in considerazione un altro pronome, il cui suono ed il cui fascino sono decisamente migliori: “noi”. 

Né la tecnologia che tende ad isolarci, né eventi imprevedibili – come una epidemia da Covid – potranno e dovranno mai essere in grado di scalfire l’inderogabile valore del “noi”, del senso di comunità, del senso di appartenenza. Nessuno si salva da solo. 

L’uomo è, per sua stessa natura, un essere sociale e solo in tale contesto è in grado di dare il meglio di sé: d’altra parte, ce lo ricorda lo stesso Omero (chiunque egli sia stato) – uno dei padri fondatori del nostro pensiero occidentale al quale siamo tanto attaccati (talvolta con un pizzico di arroganza) – quando dice che “Lieve è l’oprar se in molti è condiviso”. 

Ebbene sì; le fatiche, il lavoro, la crescita di una comunità, lo sviluppo sociale sono obiettivi duri e faticosi da raggiungere, e – per poterlo fare – non basta il singolo: occorre la collettività, occorre che ciascuno faccia la sua parte, occorre che ciascuno si senta il colibrì della favola africana … pronto a portare nel suo piccolo becco anche poche gocce d’acqua per spegnere l’incendio devastante scoppiato nella foresta. 

Ciascuno di noi – preso singolarmente – è inutile: si potrà sentire importante, determinante,  indispensabile … ma rimarrà una inutile isola in un mare di solitudine, destinato a non far fruttare alcun seme. 

Se, invece, i singoli “io” si sapranno mettere insieme, potranno aprirsi al mondo e, forse, renderlo un posto migliore nel quale vivere. 

L’insegnamento degli studenti universitari polacchi venuti in Italia a collaborare con i nostri studenti e con i nostri operatori italiani è proprio questo: “cooperiamo, ciascuno metta la propria parte” per cercare di raggiungere al meglio il bene comune, il bene della comunità – grande o piccola che sia – alla quale apparteniamo. 

Prima della caduta del muro di Berlino, una bellissima canzone di Gianna Nannini – “Ragazzo dell’Europa” – vagheggiava il sogno europeo … un ragazzo che si spostava da Madrid a Colonia, da Varsavia (città dalla quale scappava “per non fare il soldato” oltre la cortina di ferro) ai boulevard di Parigi in cerca dell’amore, del lavoro, del futuro. Erano gli anni dei viaggi in treno – passaporto nello zaino anche per attraversare i singoli paesi europei – per fare il fatidico “giro in inter-rail”. Erano gli anni dei primi scambi di studio tramite l’Erasmus. 

Erano anni in cui credevamo e speravamo in un “noi” che potesse andare oltre i confini, oltre i muri, oltre le ideologie e oltre le lingue. 

È ora di tornare a quei sogni e a quelle speranze, è giunto nuovamente il tempo di parlare e di “fare” al plurale, per non morire di individualismo. 

#comunità #collaborazione

1 commento

  1. Interessante – chiaro e ben fatto . Congratulazioni , la cooperazione rappresenta un valore da corroborare sempre .

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